SEGNALAZIONE #68
VERA
TITOLO: Vera
AUTORE: Annarita Mangialardo
GENERE: narrativa
GENERE: narrativa
EDITORE: Brè Edizioni
NUMERO DI PAGINE: 149
DATA DI PUBBLICAZIONE: 12 aprile 2019
ASIN: B07QMDT65R
PREZZO E-BOOK: 3,99€ (disponibile su Kindle Unlimited)
ISBN: 9788832093278
ISBN: 9788832093278
PREZZO CARTACEO: 15€
SINOSSI
Vera è una giovane donna orfana di madre. Il ricordo del lutto la accompagna nella sua vita di giovane artista e di emarginata: fin da piccola Vera è sempre stata la “bambina diversa”, introversa e dalla fantasia irrefrenabile. Proprio a lei spetta il compito di aiutare suo padre adottivo che, nel corso degli anni, dopo la perdita della moglie, è caduto nel tunnel dell’alcolismo e del nichilismo. Fra i ricordi di un’infanzia segnata dalla perdita della madre adottiva, una storia d’amore mai risolta con un ragazzo simile a lei e l’ambizione di sfondare nel mondo dell’arte, Vera avanza passo dopo passo verso un destino che segnerà un cambiamento irreversibile, nella sua vita e in quella delle persone che ama; il primo passo sarà quello considerato “proibito”: la ricerca dei suoi genitori biologici.
BIOGRAFIA
BIOGRAFIA
Annarita Mangialardo nasce a Bari nel 1992.
Affascinata dai meccanismi psichici e dalle forze che legano le persone, affronta la scrittura come un’occasione per riscoprire la libertà perduta dell’essere umano. Nel 2018 ha pubblicato La conquista con Robin Edizioni. Su Facebook gestisce la pagina Una scrittrice distratta.
Vera è il suo secondo romanzo.
Affascinata dai meccanismi psichici e dalle forze che legano le persone, affronta la scrittura come un’occasione per riscoprire la libertà perduta dell’essere umano. Nel 2018 ha pubblicato La conquista con Robin Edizioni. Su Facebook gestisce la pagina Una scrittrice distratta.
Vera è il suo secondo romanzo.
ESTRATTO
Quel pomeriggio, Vera era rimasta in casa a guardare la televisione. Non impazziva per tutti quei colori confusi che apparivano sullo schermo, che sembravano voler crescere in quella scatola artificiale. A differenza dei suoi compagni di classe, a scuola non parlava mai di ciò che vedeva in televisione. Non era proprio una cosa che faceva per lei. Ciò che non l’aveva mai convinta, di quei pomeriggi curiosi passati di fronte allo schermo della TV, era la confusione dei colori e delle forme che si discioglievano in qualcosa di opaco, di non abbastanza vivo. Vera percepiva molto bene questa mancanza, e laddove gli altri si entusiasmavano, lei vedeva invece confusione, un volo solo tentato, un’altezza da terra mai raggiunta.
Queste erano le sue sensazioni, un po’ infantili e sicuramente non facili da definire. Col tempo avrebbe spiegato la faccenda in questo modo: la televisione le dava l’idea di una costruzione che falliva già in partenza, perché nessuno di quei colori, nessuna delle cose che venivano dette, era realmente sentita; erano cose buttate là, che non riuscivano a toccare veramente nel profondo chi le guardava, almeno secondo lei.
Per via del lavoro dei genitori, quando Vera veniva lasciata da sola in casa, la televisione si accendeva magicamente, di solito sintonizzata sul canale che trasmetteva cartoni animati a raffica. E anche se non impazziva per tutto ciò, finiva comunque per passarci due o tre ore, magari fra uno spuntino e l’altro. Poi, arrivata a un certo punto, non resisteva più: lasciava la televisione accesa – non sapeva neppure come spegnerla – e si rintanava in cucina fra l’odore di caffè, biscotti e cucinato, oppure in giardino, dove l’odore dei fiori, del detersivo che proveniva dal bucato steso o semplicemente l’odore della stagione – amava in particolare l’autunno perché le dava l’idea di qualcosa di indefinito, di dolce ma non troppo – con tre o quattro fogli, matite colorate e iniziava a disegnare.
Le piaceva riportare ciò che vedeva su quel foglio, anche se il risultato non era mai fedele in tutto e per tutto alla sua visione. All’inizio qualcuno l’aveva criticata – come se si potesse criticare davvero l’arte di un bambino! – dicendo che quello non era il modo di ritrarre un paesaggio, che bisognava attenersi alla realtà; che – e questo la feriva particolarmente – non si poteva rappresentare il mondo come pare e piace, che bisognava insomma “darsi una regolata”, per citare l’affermazione del suo insegnante di storia dell’arte qualche anno dopo, al liceo. Lo stesso che si sarebbe poi complimentato con lei quando aveva vinto un piccolo concorso fotografico con un lavoro surrealista, dicendole che era veramente brava, che aveva talento e che lui l’aveva sempre saputo.
Disegnava, quel pomeriggio, ma pensava anche alla nuova prospettiva di scolpire. Ma non pensava, per nulla, alle parole della madre, quelle ultime parole dette con una strana calma prima di uscire di casa.
Restò a disegnare per diverse ore, non si accorse del tempo che passava, neppure quando il sole iniziò ad abbassarsi oltre l’orizzonte, il cielo si fece rosso fuoco e il tepore di quella giornata di metà stagione iniziò a tramutarsi in un fresco fuori da ogni tempo ed epoca.
Vera prese una matita rossa e iniziò a sparpagliare il colore su tutto il foglio, a piccoli tratti. Era una delle cose che avrebbe mandato in bestia il suo professore. Ma non si era piegata alle richieste di “attenersi alla realtà”, quel discorso non faceva proprio per lei. Tanto che, alla fine, prese il blu – che in quel momento non rappresentava più alcun colore nel cielo divenuto quasi rosa – e iniziò a lasciare segni forti, decisi, e ondulati lungo tutto il percorso del cielo, sulla parte superiore del foglio. Ciò che venne fuori le piacque non poco: una lunga scia di striature blu mescolate al rosso fuoco del cielo. L’idea era quella della notte, la sensazione era che quel buio, quella sorta di atmosfera notturna che tanto la accompagnava quando non riusciva a dormire, anche in piena notte, nella sua cameretta, potesse essere sempre là, dietro le nuvole, a ridosso della luna, e là osservava tutti gli esseri viventi: le persone, gli animali, gli alberi e persino ciò che in apparenza non viveva, come i sassi, le strade, gli scalini che conducevano al bar in fondo al viale, il muretto su cui si appoggiava sempre quando la madre si bloccava in mezzo alla strada per rispondere a una chiamata al cellulare. Tutto, in quella notte, era là a osservarla, anche se non sempre visibile.
Il tempo volò con una facilità disarmante e accompagnò la piccola Vera fino a quella notte tanto amata.
Il padre rientrò di colpo, sbraitando contro il vicino di casa che aveva lasciato la macchina in doppia fila appena fuori il viale dove abitavano.
«Accidenti» borbottò con quell’aria un po’ dolce e affettuosa che aveva sempre.
Alberto era stato un padre amorevole, forse il maschio più amorevole che Vera avesse mai conosciuto nella sua vita. Era stato il suo desiderio, il suo principe prediletto. Il suo sogno.
«Vera, tua madre non ha telefonato?»
La piccola se ne stava in cucina, mezza sonnecchiante.
Era già ora di cena e nessuno sembrava essersene accorto.
«Vera?» ripeté il padre, il viso stanco e arrugginito di chi ha passato la giornata in un negozio a parlare con i clienti, a spostare scatole, a servire, a imbruttirsi a stento per non imbruttire gli altri. «Ma mi vuoi rispondere?»
Il tono di voce era dolce, nonostante tutto, solo un po’ preoccupato.
«Vera?»
La bambina si alzò di scatto dalla sedia con lo sguardo e diede un’occhiata distratta al padre. «No, non ha telefonato.»
Il padre alzò un sopracciglio. Prese il telefono e compose il numero, poggiato con la schiena sfinita e logora sul muro del corridoio.
Restò in attesa per diverso tempo. A un tratto persino Vera aguzzò la vista per guardare meglio il padre, quasi si stesse preoccupando.
«Ah, Sonia!» sbuffò l’uomo «ci sei, allora. Cazzo, mi hai fatto preoccupare. Sono a casa e la piccola non sapeva niente.»
Vera sorrise, si divertiva sempre quando il padre, burbero eppure dolce, si lasciava scappare qualche parolaccia. Lei non le ripeteva mai, né a casa né a scuola, ma le piacevano perché davano l’idea di una persona incapace di controllarsi e, dunque, più umana, viva, non affettata, non alle prese con una qualche finzione per far contenti gli altri. E suo padre, dietro quella barba consumata, gli occhi quasi sempre stanchi per il lavoro, era una persona vera, come quando si arrabbiava e mandava tutti i giornali all’aria, la mattina, fra una fetta biscottata e un caffè, prima di accompagnarla a scuola, poi, con lo stesso sorriso che aveva abbandonato su quel tavolo qualche minuto prima, senza risentimento, senza portarsi dietro alcun odio.
«Dai, va bene» disse l’uomo «passo a prenderti io. Potevi avvisarmi prima, però.» Non sembrava arrabbiato, era piuttosto nervoso, aveva accumulato una certa preoccupazione per quella sorta di “sparizione” della moglie e ora aveva bisogno di sfogarsi, di lasciarsi andare. Quando chiuse la chiamata fece un lungo respiro gonfiandosi le guance, un’altra cosa che a Vera faceva sorridere e non poco. «Tesoro…»
Vera disse: «Sì, papà?»
«La macchina si è fermata. Tua madre è rimasta bloccata allo studio. Io…» Si versò rapidamente un bicchiere d’acqua dal lavandino, la trangugiò, quindi lasciò il bicchiere sul tavolo «io vado a prenderla. Mi faccio prestare la macchina da Beatrice, la vicina.» E poi le ultime parole, prima di uscire, parole anch’esse che Vera avrebbe ricordato a lungo ma che lì per lì non le dissero nulla, non potevano dirle nulla: «Riporto mamma a casa. Così poi ceniamo tutti insieme.»
«D’accordo.»
«Allora vado. Tu potresti…» Alberto si accarezzò il mento, la barba logora gli dava l’aria di un saggio, o di un operaio abituato a lavorare sodo per dieci ore al giorno – che era ciò che faceva – o di un filosofo, un pensatore oppure un artista, uno di quelli che riempiono un’intera navata di una chiesa con un affresco. In cucina aprì uno sportello e tirò fuori la pentola grande, la riempì velocemente d’acqua e la lasciò sui fornelli. Restò un attimo a pensarci, poi mugolò qualcosa e accese il fuoco. «Lascio l’acqua a bollire. Tu non toccare niente. Io e mamma torniamo tra un quarto d’ora o poco più. Faccio presto!»
Queste erano le sue sensazioni, un po’ infantili e sicuramente non facili da definire. Col tempo avrebbe spiegato la faccenda in questo modo: la televisione le dava l’idea di una costruzione che falliva già in partenza, perché nessuno di quei colori, nessuna delle cose che venivano dette, era realmente sentita; erano cose buttate là, che non riuscivano a toccare veramente nel profondo chi le guardava, almeno secondo lei.
Per via del lavoro dei genitori, quando Vera veniva lasciata da sola in casa, la televisione si accendeva magicamente, di solito sintonizzata sul canale che trasmetteva cartoni animati a raffica. E anche se non impazziva per tutto ciò, finiva comunque per passarci due o tre ore, magari fra uno spuntino e l’altro. Poi, arrivata a un certo punto, non resisteva più: lasciava la televisione accesa – non sapeva neppure come spegnerla – e si rintanava in cucina fra l’odore di caffè, biscotti e cucinato, oppure in giardino, dove l’odore dei fiori, del detersivo che proveniva dal bucato steso o semplicemente l’odore della stagione – amava in particolare l’autunno perché le dava l’idea di qualcosa di indefinito, di dolce ma non troppo – con tre o quattro fogli, matite colorate e iniziava a disegnare.
Le piaceva riportare ciò che vedeva su quel foglio, anche se il risultato non era mai fedele in tutto e per tutto alla sua visione. All’inizio qualcuno l’aveva criticata – come se si potesse criticare davvero l’arte di un bambino! – dicendo che quello non era il modo di ritrarre un paesaggio, che bisognava attenersi alla realtà; che – e questo la feriva particolarmente – non si poteva rappresentare il mondo come pare e piace, che bisognava insomma “darsi una regolata”, per citare l’affermazione del suo insegnante di storia dell’arte qualche anno dopo, al liceo. Lo stesso che si sarebbe poi complimentato con lei quando aveva vinto un piccolo concorso fotografico con un lavoro surrealista, dicendole che era veramente brava, che aveva talento e che lui l’aveva sempre saputo.
Disegnava, quel pomeriggio, ma pensava anche alla nuova prospettiva di scolpire. Ma non pensava, per nulla, alle parole della madre, quelle ultime parole dette con una strana calma prima di uscire di casa.
Restò a disegnare per diverse ore, non si accorse del tempo che passava, neppure quando il sole iniziò ad abbassarsi oltre l’orizzonte, il cielo si fece rosso fuoco e il tepore di quella giornata di metà stagione iniziò a tramutarsi in un fresco fuori da ogni tempo ed epoca.
Vera prese una matita rossa e iniziò a sparpagliare il colore su tutto il foglio, a piccoli tratti. Era una delle cose che avrebbe mandato in bestia il suo professore. Ma non si era piegata alle richieste di “attenersi alla realtà”, quel discorso non faceva proprio per lei. Tanto che, alla fine, prese il blu – che in quel momento non rappresentava più alcun colore nel cielo divenuto quasi rosa – e iniziò a lasciare segni forti, decisi, e ondulati lungo tutto il percorso del cielo, sulla parte superiore del foglio. Ciò che venne fuori le piacque non poco: una lunga scia di striature blu mescolate al rosso fuoco del cielo. L’idea era quella della notte, la sensazione era che quel buio, quella sorta di atmosfera notturna che tanto la accompagnava quando non riusciva a dormire, anche in piena notte, nella sua cameretta, potesse essere sempre là, dietro le nuvole, a ridosso della luna, e là osservava tutti gli esseri viventi: le persone, gli animali, gli alberi e persino ciò che in apparenza non viveva, come i sassi, le strade, gli scalini che conducevano al bar in fondo al viale, il muretto su cui si appoggiava sempre quando la madre si bloccava in mezzo alla strada per rispondere a una chiamata al cellulare. Tutto, in quella notte, era là a osservarla, anche se non sempre visibile.
Il tempo volò con una facilità disarmante e accompagnò la piccola Vera fino a quella notte tanto amata.
Il padre rientrò di colpo, sbraitando contro il vicino di casa che aveva lasciato la macchina in doppia fila appena fuori il viale dove abitavano.
«Accidenti» borbottò con quell’aria un po’ dolce e affettuosa che aveva sempre.
Alberto era stato un padre amorevole, forse il maschio più amorevole che Vera avesse mai conosciuto nella sua vita. Era stato il suo desiderio, il suo principe prediletto. Il suo sogno.
«Vera, tua madre non ha telefonato?»
La piccola se ne stava in cucina, mezza sonnecchiante.
Era già ora di cena e nessuno sembrava essersene accorto.
«Vera?» ripeté il padre, il viso stanco e arrugginito di chi ha passato la giornata in un negozio a parlare con i clienti, a spostare scatole, a servire, a imbruttirsi a stento per non imbruttire gli altri. «Ma mi vuoi rispondere?»
Il tono di voce era dolce, nonostante tutto, solo un po’ preoccupato.
«Vera?»
La bambina si alzò di scatto dalla sedia con lo sguardo e diede un’occhiata distratta al padre. «No, non ha telefonato.»
Il padre alzò un sopracciglio. Prese il telefono e compose il numero, poggiato con la schiena sfinita e logora sul muro del corridoio.
Restò in attesa per diverso tempo. A un tratto persino Vera aguzzò la vista per guardare meglio il padre, quasi si stesse preoccupando.
«Ah, Sonia!» sbuffò l’uomo «ci sei, allora. Cazzo, mi hai fatto preoccupare. Sono a casa e la piccola non sapeva niente.»
Vera sorrise, si divertiva sempre quando il padre, burbero eppure dolce, si lasciava scappare qualche parolaccia. Lei non le ripeteva mai, né a casa né a scuola, ma le piacevano perché davano l’idea di una persona incapace di controllarsi e, dunque, più umana, viva, non affettata, non alle prese con una qualche finzione per far contenti gli altri. E suo padre, dietro quella barba consumata, gli occhi quasi sempre stanchi per il lavoro, era una persona vera, come quando si arrabbiava e mandava tutti i giornali all’aria, la mattina, fra una fetta biscottata e un caffè, prima di accompagnarla a scuola, poi, con lo stesso sorriso che aveva abbandonato su quel tavolo qualche minuto prima, senza risentimento, senza portarsi dietro alcun odio.
«Dai, va bene» disse l’uomo «passo a prenderti io. Potevi avvisarmi prima, però.» Non sembrava arrabbiato, era piuttosto nervoso, aveva accumulato una certa preoccupazione per quella sorta di “sparizione” della moglie e ora aveva bisogno di sfogarsi, di lasciarsi andare. Quando chiuse la chiamata fece un lungo respiro gonfiandosi le guance, un’altra cosa che a Vera faceva sorridere e non poco. «Tesoro…»
Vera disse: «Sì, papà?»
«La macchina si è fermata. Tua madre è rimasta bloccata allo studio. Io…» Si versò rapidamente un bicchiere d’acqua dal lavandino, la trangugiò, quindi lasciò il bicchiere sul tavolo «io vado a prenderla. Mi faccio prestare la macchina da Beatrice, la vicina.» E poi le ultime parole, prima di uscire, parole anch’esse che Vera avrebbe ricordato a lungo ma che lì per lì non le dissero nulla, non potevano dirle nulla: «Riporto mamma a casa. Così poi ceniamo tutti insieme.»
«D’accordo.»
«Allora vado. Tu potresti…» Alberto si accarezzò il mento, la barba logora gli dava l’aria di un saggio, o di un operaio abituato a lavorare sodo per dieci ore al giorno – che era ciò che faceva – o di un filosofo, un pensatore oppure un artista, uno di quelli che riempiono un’intera navata di una chiesa con un affresco. In cucina aprì uno sportello e tirò fuori la pentola grande, la riempì velocemente d’acqua e la lasciò sui fornelli. Restò un attimo a pensarci, poi mugolò qualcosa e accese il fuoco. «Lascio l’acqua a bollire. Tu non toccare niente. Io e mamma torniamo tra un quarto d’ora o poco più. Faccio presto!»
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